Occhi puntati su adenovirus F41, ma anche Long Covid
27 Aprile 2022
Le ipotesi di lavoro sui casi dei bambini colpiti da epatiti di origine sconosciuta. Perno del Bambino Gesù: «Improbabile nuova pandemia, un virus noto potrebbe risultare più aggressivo per una serie di concause»
Le autorità indagano sui casi di epatite grave di origine sconosciuta che hanno colpito i bambini in più di una dozzina di Paesi in tutto il mondo.
Il punto della situazione
Il punto, fatto martedì da Andrea Ammon, direttore del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC), parla di 200 casi globali: la Gran Bretagna è il paese più colpito (o quello che monitora meglio) con 111 casi nell’ultimo conteggio, altri 40 casi sono stati identificati nell’Unione Europea, ma segnalazioni arrivano anche da Stati Uniti, Israele e Giappone.
L’attuale focolaio ha portato ad almeno 17 trapianti di fegato in pazienti di età inferiore ai 16 anni e a un decesso, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
In Italia ci sarebbero «meno di 10 casi definiti probabili», ha detto il direttore della Prevenzione del ministero della Salute, Gianni Rezza, e ha aggiunto: «Chiaramente con l’attivazione della rete e del monitoraggio ogni giorno ci sono nuove segnalazioni, ma non sappiamo ancora se questo numero rappresenti un aumento o meno rispetto agli altri anni».
Mentre prosegue il monitoraggio, abbiamo chiesto a Carlo Federico Perno, direttore di Microbiologia e Diagnostica di Immunologia dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma: quali sono le ipotesi in gioco riguardo all’origine di queste epatiti?
«Una premessa: quello che escludo con certezza assoluta è la correlazione con i vaccini anti Covid, perché stiamo parlando di una popolazione che, per definizione, non è vaccinata (i casi nella media riguardano bambini sotto ai 5 anni, ndr), o ha tassi di vaccinazione molto bassi (6-11 anni)».
È una nuova pandemia?
«È relativamente improbabile che sia comparso un virus totalmente nuovo che sia all’origine di queste epatiti. Le altre due ipotesi virologiche sono essenzialmente: un virus noto che per qualche ragione è diventato più aggressivo, o un virus noto che ha modificato un pochino le sue caratteristiche genetiche ed è diventato più pericoloso. Nel primo caso, al momento più probabile, parliamo di un virus che il nostro organismo per qualche ragione (mascherine, distanziamento e misure anti Covid) non ha visto per due anni: il nostro sistema immunitario non si è “indebolito”, ma è diventato un po’ più “torpido” nei confronti di questi germi, con il risultato che anche un virus “banale” può diventare più infettivo e potenzialmente pericoloso».
Si tratta di un adenovirus?
«Il fatto che l’adenovirus sia stato riscontrato in circa la metà dei casi studiati può essere suggestivo, e quindi bisogna guardare in quella direzione, però attenzione: gli adenovirus ci sono anche nelle persone sane, se li cerchiamo li troviamo, quindi bisogna capire innanzitutto se c’è davvero un aumento della circolazione di questi virus, poi, nel caso, bisognerebbe dimostrare la correlazione causa effetto, cioè capire se questi adenovirus siano in gioco in qualche maniera in queste epatiti, dato che normalmente non le provocano se non in soggetti particolarmente immunodepressi, molto gravi».
Nel report inglese sulle epatiti si punta l’attenzione su un tipo di adenovirus chiamato F41: potrebbe essere un adenovirus mutato diventato più pericoloso?
«Gli adenovirus sono molto diversi tra loro, sono più di 50 tipi quelli che infettano l’uomo, il 41 è uno di questi. Non ha mai avuto riscontro di epatiti, però in passato non l’abbiamo mai cercato nelle epatiti. Questo virus è stato riscontrato in un numero significativo di casi, ma non in tutti (meno della metà) e non abbiamo alcuna evidenza della correlazione “causa effetto” tra il virus e l’epatite».
Potrebbe trattarsi di un altro virus mutato?
«Difficile si sia già diffuso in tutti i continenti sfuggendo al controllo. Non possiamo mai escluderlo, però è poco probabile che sia accaduta una cosa del genere. È più probabile, come detto, che sia un virus (che potrebbe essere adenovirus e potrebbe essere il 41) ad aver acquisito una capacità di danneggiare il fegato derivante da altri fattori, per esempio l’abbassamento delle difese immunitarie, o la co-presenza del SARS-CoV-2 avvenuta in passato».
C’è un’ipotesi di causa diretta per il SARS-CoV-2?
«Una correlazione diretta con il virus la ritengo improbabile, perché i piccoli pazienti che hanno queste epatiti nella gran parte dei casi non hanno il Covid in forma attiva, molti invece hanno gli anticorpi che dimostrano un’infezione pregressa. Sappiamo che il Long Covid esiste: non possiamo escludere che le epatiti possano esserne una manifestazione insolita, oppure che il Long Covid, avendo alterato le risposte immunitarie (con un’infiammazione portata avanti nel tempo come accade spesso durante le infezioni di questo tipo) possa aver favorito un’infezione epatica da parte di un altro virus, per esempio gli adenovirus. Sono ipotesi assolutamente ragionevoli, da esplorare».
Il distanziamento sociale e le mascherine possono averci reso «più deboli»?
«Come detto il nostro sistema immunitario potrebbe essere meno allenato a “vedere” alcuni virus dopo questo periodo di isolamento. Distanziamento e soprattutto mascherine sono stati strumenti di allontanamento da tutti i germi che incontriamo quotidianamente. Nel periodo aprile 2020 e maggio-giugno 2021 avevamo pressoché azzerato le infezioni da virus che normalmente si riscontrano. L’autunno scorso d’improvviso sono ricomparsi tutti i virus respiratori, c’è stata una recrudescenza improvvisa e violentissima, ad esempio dei virus respiratori sinciziali (VRS). Anche l’influenza tardiva di quest’anno è stata un segnale: praticamente per un periodo abbiamo alterato tutti i nostri contatti con i virus a trasmissione respiratoria, che adesso stanno tornando. Ecco quindi che questi adenovirus, che normalmente non provocano epatiti potrebbero avere un’aggressività maggiore, magari in soggetti che precedentemente hanno fatto il Covid e le epatiti potrebbero anche essere correlate alle alterazioni immunologiche causate dal Long Covid. È comunque per ora solo un’ipotesi di lavoro».